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Alla “riscoperta” dei canoni industriali tradizionali – Parte II di III

29 Maggio 2013

(A cura di Avv. Michele Franzoso, Centro Studi AS.TRO – Ufficio Studi Federazione Sistema Gioco Italia)

La più tradizionale ed efficace non pare utilizzabile, in quanto la totale “rivisitazione” del concetto di gioco lecito “pare non essere” allo stato praticabile: essa presupporrebbe l’abbandono della pretesa erariale come giustificazione per lo “Stato biscazziere” (parliamo in vulgaris così tutti comprendono), in favore dell’adozione di un “principio di salvaguardia della terza industria del Paese” (funzionale all’emarginazione del gioco illegale e quindi alla emersione a tassazione effettiva e controllata della spesa nazionale per prodotti di gioco e scommessa).
La bad reputation del settore, costruita ad “arte”, rende oggi troppo arduo “cambiare idea”, e spiegare al “popolo” che uno Stato evoluto deve imporre un sistema di gioco lecito – controllato e tassato per “dare un servizio” al cittadino, per “metterlo al riparo” dal gioco illegale, per garantire all’utenza un “prodotto” che non crei dipendenza, perché non è la “pretesa erariale” a giustificarlo (e quindi a caratterizzarne il pay out e le sue modalità operative nei confronti dell’utenza), bensì la sola “mission” di combattere la presenza di offerte illecite che pretendono di sottrarsi ai controlli.
E’ troppo chiedere – oggi-  ad un Governo che deve “ricostruire le fondamenta economiche di un Paese che ha perso l’80% del suo tessuto industriale tradizionale, di adottare uno stile “English” e quindi:
 decidere che il gioco lecito produce “della ricchezza” che deve restare nel territorio in cui si raccoglie, e che non può essere incamerata dallo Stato centrale perché fisiologicamente da destinarsi ai soli servizi sociali del posto;
 decidere l’”indifferenza” dello Stato rispetto ai “target” di raccolta, e la sua sola ingerenza nei meccanismi selettivi degli operatori e delle rispettive regole di condotta;
 decidere che il rapporto tra industria del gioco autorizzato e criticità di impatto sociale derivante da forme di disagio, deve essere affrontato in un’ottica di normale impatto “ambientale” scientificamente regolamentato: al di sotto di una certa soglia è normale, al di sopra di una certa soglia l’industria è diffidata al rientro nei “valori” consentiti.
E’ troppo facile dire che in 3 regole il gioco patologico potrebbe sparire (come fenomeno dai valori non tollerabili), perché sarebbe l’industria stessa a espellerlo dai rispettivi circuiti distributivi, e che “agevolmente” l’Italia potrebbe diventare un Paese evoluto stile “Inghilterra”, dove il gambling costituisce “candidamente e orgogliosamente” una priorità di svago per il cittadino che “vede” i suoi soldi spesi trasformarsi in un campo da calcio, in un centro di recupero per alcolisti, in un asilo nido.
Visto che il piano A) NON pare praticabile, accediamo all’analisi di un “potenziale” piano B).
Un mercato saturo si “libera” dallo stallo
 imponendo una cura dimagrante all’offerta,
 investendo risorse per contrastare quel gioco illegale che si insinuerà (forte dei suoi costi zero), negli spazi liberati,
 stabilendo un ridimensionamento dei principi di libero mercato (che libero del tutto non può più essere).
Tutto ciò si dovrebbe concretizzare in:
 assoggettamento del punto vendita e del partner del concessionario ad un agio fisso e non modificabile dalla libera contrattazione, con conseguente degradazione della concorrenza ai soli criteri di qualità del servizio;
 portabilità del nulla osta, magari assistita da una istanza amministrativa di istruttoria pubblica;
 fisiologica polarizzazione dei contesti imprenditoriali, laddove la scomparsa dei criteri economici di fidelizzazione susciterebbe una selezione degli operatori, privilegiante chi possa compensare i più ridotti margini con l’ampliamento della “base operativa”.
Anche il piano B), tuttavia, oltre che a manifestare qualche “titanico” problema di praticabilità immediata, stante il già avvenuto varo delle convenzioni, richiederebbe una risolutezza legislativa “tale” da non configurarsi come “ricetta per l’oggi”. Anche l’impatto di tale soluzione non sarebbe immune da censure, non essendovi certezza alcuna sugli esiti delle polarizzazioni imprenditoriali pilotate senza una accurata selezione dei principi ispiratori delle stesse.
Non resta, pertanto, che rassegnarsi al dato della refrattarietà del nostro Paese alla pianificazione industriale di modelli di sviluppo.
Nel successivo e ultimo articolo, che apparirà domani, sarà analizzata la via di uscita dallo stato di crisi.
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