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Il futuro del gioco Lecito non è più la performance erariale

14 Luglio 2011

Da due notizie apparentemente “isolate” (e neppure così “impattanti” sul quotidiano del settore gioco lecito), emerge un distacco tra la “originaria mission” del sistema pubblico di gioco e la fonte giustificativa del suo futuro.  La prima notizia è il ritorno di fiamma del ddl di iniziativa della regione Piemonte sull’abolizione delle slot negli esercizi, la seconda è il rinnovato allarmismo della commissione antimafia sulle infiltrazioni malavitose nel comparto giochi (ostinatamente rappresentato in termini eterogenei dove al gioco lecito si accomuna l’alter ego illegale).
Nel dicembre del 2002, all’indomani della legge 289/ 2002, l’Italia vantava 800.000 videopoker gestiti in regime di totale franchigia fiscale, un palcoscenico variopinto di operatori di scommesse non autorizzate (terrestri e telematiche), per non parlare dei casinò on line, di matrice caraibica sotto il profilo dell’allocazione del server, ma di elevata componente italica nella genesi e nella promozione commerciale.
Incidenza del gioco lecito all’epoca ? spiccioli, per un Paese che, per far cassa, inaugurava, la stagione dei condoni tributari tombali, degli scudi, delle cartolarizzazioni.
Nel 2003 nessuno avrebbe pensato che il gioco lecito sarebbe passato da una incidenza erariale irrilevante ad una media incasso di 10 miliardi di euro l’anno, e nessuno si sarebbe posto il problema di affrontare le conseguenze derivanti dall’impatto massivo dell’offerta di gioco di Stato, neppure i competitors ostinatamente convinti dei loro diritti di allocare i redditi nei paradisi fiscali.
Sta di fatto che oggi il comparto gioco pubblico è una industria che attira capitali e investimenti di banche e fondi di investimenti (e non solo delle cosche come imprudentemente si vuole far credere), arrivando a detenere la maggioranza delle quote di mercato disponibili e quindi relegando il complesso (e ancora ingente) pacchetto di operatori “irregolari” in un ambito di lavoro “sotto-traccia” e sempre più “perseguito” (nei limiti in cui in Italia si “persegue” l’economia illegale).
Eppure è oramai pacifico che non vi è traccia di “benemerenza” per chi ha investito in legalità e sicurezza, bonificando un territorio e creando dal nulla un gettito erariale record.
Anzi, la tendenza “psicotica” che si afferma è quella di anteporre al dato del gettito erariale il volume di spesa che ci sta dietro, per sostenere che il Paese deve “cambiare” registro nei confronti del gioco e imparare a fare a meno dei proventi di slot, scommesse, bingo, lotterie, concorsi, eccetera.
Addirittura ci si rifiuta di riconoscere l’evidenza socio – antropologica che questi anni ci ha consegnato, ovvero la fisiologia contrazione del gioco clandestino al cospetto dell’espansione del gioco lecito e l’altrettanto automatica riemersione dell’illegalità nei momenti di scarsa competitività del prodotto di Stato.
Oramai è chiaro che non si tratta di tesi sostenute da teorie economico-fiscali alternative, né da politiche di rinnovamento, posto che nessuno dei detrattori del gioco lecito è in grado di individuare dove prendere il gettito erariale che si vorrebbe eliminare, né come soddisfare una domanda di gioco di sorte che una popolazione globalizzata e industrializzata riversa immancabilmente sul mercato.
Neppure l’evidente scotto elettorale scaturente dalla abolizione delle slot da 140.000, punti tra bar e tabaccherie, incute prudenza, perché il ritorno di visibilità che assicurano le campagne anti-slot è ancora alto.
Giusto controbattere quindi, oppure proseguire tanquam non esset? Probabilmente nessuna della due alternative coglie nel segno.
Imporsi coi numeri a dispetto di un sentimento che si propone di diventare “comune” è rischioso se poi la platea dei detrattori si afferma in modo generalizzato.
L’economia “fluttua” e ciò che oggi significano 10 miliardi di euro, domani potrebbe essere considerato “sacrificabile”. Neppure contrastare la “comunicazione” con la “comunicazione” può garantire certezze, perché l’impatto dei messaggi sulle menti è inversamente proporzionale alla loro complessità, con ciò derivando che sarà sempre arduo controbattere a chi dice che il gioco è un danno attraverso la spiegazione che ciò non corrisponde al vero.

Forse la strada da seguire è quella di rassegnarsi ad un costante dinamismo di mission che non consenta a chi vuole eliminare il gioco lecito di avere punti di riferimento.

L’unica strada percorribile è quindi la vecchia ricetta inglese, consistente nel trasformare il gioco come il frutto di un patto tra cittadini e Istituzioni. Il gioco può diventare qualcosa che i cittadini chiederanno di difendere, e non più un momento di manifestazione per protestare per l’apertura di una sala dedicata. Per raggiungere questo obiettivo i proventi del gioco non possono più confluire nella comune cassa dell’Erario ma devono essere vincolati a precise destinazioni di scopo. Se all’Aquila fossero veramente arrivati (e poi ben spesi) tutti (ma proprio tutti) i denari che al nostro comparto sono stati richiesti per contribuire alla ricostruzione, avremmo a disposizione un dato di conferma di questa tesi talmente probante da eliminare ogni dubbio.
Se l’ostacolo a tale percorso è la arretratezza del Paese e delle sue dinamiche politiche, le difficoltà che si frappongono all’ammodernamento della mission del gioco lecito sono ovviamente elevate, ma un dato va oramai considerato come assodato: il volume di gioco e il suo corrispondente gettito erariale non sono più i fattori sui quali l’industria potrà garantirsi un futuro di espansione nell’ambito di realtà locali a cui nulla perviene in termini di risorse.
Investire sui territori può essere una buona pubblicità e non è detto che alla fine costi di più di pattinati cartelli o ritagli di quotidiani, e a riprova di ciò c’è la sempre maggiore presenza delle aziende di gioco nell’ambito delle sponsorizzazioni sportive.
Una maglia di serie A è un bel biglietto di visita per un anno, ma un reparto di neonatologia sarebbe un eterno testimonial d’eccezione, e per di più non vincolato ai risultati fin troppo aleatori delle partite di calcio.

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