Falso in bilancio: continua a presentare rilevanza penale
- astro trattenimento
- 12 nov 2015
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Il falso in bilancio con danno, perpetrato in una società non quotata per il tramite della mancata esposizione in di rilevanti poste attive effettivamente esistenti nel patrimonio della società, continua a presentare rilevanza penale anche in esito alla recente riforma, configurandosi un rapporto di continuità normativa. A precisarlo è la sentenza n. 37570 della Cassazione, depositata recentemente, che, per arrivare a tale conclusione, si sofferma su alcuni importanti “caratteristiche” delle nuove fattispecie. I reati di false comunicazioni sociali sono stati recentemente oggetto di revisione ad opera della L. 69/2015. Prima di essa si distinguevano due ipotesi: una contravvenzionale, di cui all’art. 2621 c.c. (false comunicazioni sociali “senza danno”) e una delittuosa, di cui all’art. 2622 c.c. (false comunicazioni sociali “in danno della società, dei soci o dei creditori”). In tale secondo ambito, poi, una considerazione a parte – con un trattamento sanzionatorio di maggior rigore e una specifica circostanza aggravante – era stata riservata alle false comunicazioni sociali perpetrate in società “quotate”. La ricordata L. 69/2015 ha sostituito, a decorrere dal 14 giugno 2015, gli artt. 2621 e 2622 c.c. ed ha inserito nel codice civile i nuovi artt. 2621-bis e 2621-ter. In via generale: si distingue tra false comunicazioni sociali in società non quotate (art. 2621 c.c.) e false comunicazioni sociali in società quotate (art. 2622 c.c.), sanzionando entrambe le fattispecie come delitto; si prevedono – in relazione alle false comunicazioni sociali di società non quotate – ipotesi attenuate per fatti di lievi entità (art. 2621-bis c.c.) ed una specifica causa di non punibilità per particolare tenuità (art. 2621-ter c.c.). In pratica, si passa da una differenziazione fondata sull’esistenza o meno di danni nei confronti della società, dei soci o dei creditori, ad una che si basa sul contesto societario nel quale le false comunicazioni sociali sono poste in essere. Condotte punite con le più gravi sanzioni della reclusione da uno a cinque anni, nel caso di falso in società non quotate, e da tre a otto anni, nel caso di falso in società quotate. In ogni caso, sottolinea la Suprema Corte, entrambi i reati sono “di pericolo”. Anzi è tale anche l’ipotesi attenuata di cui all’art. 2621-bis c.c. che, come sostenuto anche in dottrina, è configurata come autonomo titolo di reato. Nella previgente fattispecie di false comunicazioni sociali nelle società non quotate, inoltre, in forza dell’art. 2622 comma 1 c.c., il reato, in presenza di danno, era perseguibile a querela della persona offesa. La vigente fattispecie di false comunicazioni sociali nelle società non quotate è, invece, procedibile d’ufficio. Ciò – osserva la Suprema Corte – rivela l’intenzione di recuperare coerenza sistematica attraverso la tutela esclusiva del bene giuridico della trasparenza dell’informazione societaria. Trova conferma, inoltre, l’irrilevanza penale delle falsità o delle omissioni in tutte le comunicazioni “atipiche” (ovvero non previste dalla legge), “intraorganiche”, “interorganiche” e dirette ad un unico destinatario, privato o pubblico; salva la sussistenza delle condizioni per configurare ulteriori fattispecie (ad esempio, artt. 2625, 2637 e 2638 c.c.). Il legislatore ha eliminato non solo, come già accennato, l’evento di danno, ma anche le soglie di punibilità. A tali eliminazioni corrisponde una rimodulazione delle condotte tipiche, consistenti nell’esporre fatti materiali “rilevanti” non rispondenti al vero ovvero nell’omettere fatti materiali – non più “informazioni” – “rilevanti” la cui comunicazione è imposta dalla legge. Condotta che, “amputata” del riferimento alle valutazioni, deve essere “concretamente” idonea ad indurre altri in errore (elemento che connota i falsi in questione come reati di pericolo concreto). Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, poi, permane il fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto (dolo specifico), ma viene meno l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico; al contempo è esplicitamente introdotto il riferimento alla consapevolezza delle falsità esposte e delle omissioni, sintomatico della volontà di escludere la rilevanza del dolo eventuale. A fronte di tutto ciò, la Suprema Corte osserva come, dal punto di vista considerato (false comunicazioni sociali con danno in società non quotate di cui al previgente art. 2622 c.c.), le modifiche della L. 69/2015 abbiano ampliato l’ambito di operatività dell’incriminazione, con l’eliminazione della necessità dell’evento e del superamento delle soglie di punibilità, mantenendo sostanzialmente identico il profilo della condotta tipica, quanto meno con riguardo a quella oggetto di specifica contestazione (mancata esposizione in bilancio di consistenti poste attive effettivamente esistenti nel patrimonio della società). Rispetto ad essa, in particolare, non potrebbe rilevare né un’eventuale lettura restrittiva della nozione di “fatti materiali”, che sostituendosi a quella di “informazioni” e tralasciando le “valutazioni” potrebbe portare ad un effetto solo parzialmente abrogativo (così Cass. n. 33774/2015); né la precisazione che gli stessi debbano essere “rilevanti” (che non incide sulla sostanziale identità dell’area di tipicità). Occorre, quindi, considerare l’art. 2 comma 4 c.p., con applicazione del previgente art. 2622 c.c., in concreto più favorevole all’imputato. Fonte: Eutekne