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Processo Black slot di Venezia: la storia di un procedimento che riprende oggi il dibattimento

1 Febbraio 2012


Dopo tanti comunicati di carattere esclusivamente informativo sul calendario delle udienze del processo più famoso che ha interessato il settore, proviamo a riassumere la natura del procedimento, che oramai incomincia ad avere un’anima pulsante, vuoi per la sua durata estenuante, vuoi per i suoi risvolti tecnico-giuridici per nulla trascurabili.
La notte dei tempi in cui tutto ebbe origine è il ricordo peggiore che i gestori conservano nella rispettiva storia aziendale: quel settembre del 2007 in cui ci si è dannati per ritirare dagli esercizi apparecchi regolamente gestiti, tassati e formalmente in regola con ogni requisito giuridico possibile ed immaginabile, resterà, infatti, indelebile per due motivi: il primo attiene alle responsabilità (per colpa di chi tutto ciò è successo resta un interrogativo), il secondo attiene ai danni patiti, dei quali solo gli ottimisti intravvedono speranze di concreto ristoro.
Dal provvedimento di sequestro del 2007, all’inizio del processo penale nel maggio del 2009, nessuna luce chiarificatrice. A giudizio vengono tratti i tecnici responsabili delle procedure di omologazione eseguite da un ente di verifica sui software, amministratori e tecnici programmatori dell’azienda creatrice dei software, amministratori dell’azienda costruttrice della scheda di gioco alloggiante il software giudicato illegale, da un consulente che nulla sa di programmi ma che la Procura della Repubblica di Venezia investe del ruolo di sapiente della “logica del gioco”.
In due anni di processo, tra udienze preliminari e dibattimenti, tutto è emerso tranne la figura di un responsabile a cui poter attribuire la natura di entità scatenante tutta questa vicenda, e il sospetto che ciò stia al di fuori dal processo, comincia a diventare più di una locubrazione notturna.
Chi ha fatto il software lo ha consegnato all’azienda che faceva l’hardware; chi faceva l’hardware ha portato la scheda di gioco all’ente di Verifica con il relativo sorgente, l’Ente di verifica ha eseguito un programma standard di controlli stabilito dall’Amministrazione, l’Amministrazione ha messo il timbro sull’esito dei controlli eseguiti dal verificatore ad hoc incaricato. Questo schema non è stato smentito, e nulla è emerso circa occultamenti dolosi di dati che qualcuno abbia  o meno commesso nei confronti di altri, lungo il corso degli steps sopra ricordati.
AS.TRO, seguendo la logica della responsabilità civile, prima ancora dei suoi capitolati giuridici, ha promosso un servizio di assistenza legale gratuita per coloro che ritenessero di chiamare in causa l’ente verificatore in qualità di responsabile civile, forte del principio che una attività industriale deve sempre essere dotata di procedure idonee per evitare anche quegli errori che il capo di imputazione ha fatto oggettivamente presumere che siano stati commessi da chi doveva svolgere il compito di controllare il sorgente.
Adesso, ciò che corre il rischio di diventare evanescente è proprio la fonte della presunzione, e quando si parla di rischio non si invoca solo un timore di esito giudiziario avverso, ma la più grave sensazione di non poter arrivare alla verità.
Tutto il processo, infatti, si è incentrato sulla fobica ricerca di dettagli che sanciscano la illegalità del software, ma non è stato possibile comprendere “cosa” ha generato il fatto oggettivo di una approvazione di un programma di gioco dalle caratteristiche non occultate (palesi nel sorgente), in difformità da quelle norme che avrebbero dovuto imporne la non omologazione.
Il dato ancor più preoccupante è che si sta profilando è il cosidetto “fallo di confusione”, espressione mutuata dai cronisti di calcio, ma che al processo black slot ben si addice.
Se in area di rigore il fallo di confusione costituisce la fine di un’azione di attacco per l’eccessivo affollamento indisciplinato dell’area di rigore, in attesa del calcio di una palla inattiva, nel processo penale questa espressione evoca l’assenza di prova del dolo.
Senza dolo, infatti, l’errore di tutti è l’errore di nessuno, la negligenza di uno ha tratto in errore l’altro.
Ma siamo proprio sicuri che si è trattato solo di uno “sbaglio” ? Se questo dovesse essere il verdetto la fonte giudiziaria della presunzione di colpevolezza finirebbe anch’essa per potersi vantare dell’equivoco circa il fatto che quella data condotta sia stata posta in essere con consapevolezza (id est “si pensava l’avessero fatto apposta, invece hanno solo sbagliato).
La cronaca giudiziaria è piena di questa sentenze.
Pessimismo o scetticismo di ritorno, quale sentimento ispira questa cronistoria ? A onor del vero entrambi: la pervicacia con cui si è instaurato a Venezia un processo che di veneto ha ben poco,  depone a favore dello scetticismo. La disinvoltura con cui tutto il processo si è incardinato, sulla base di una imputazione di associazione a delinquere di cui non vi è argomentazione scritta nel capo di imputazione, evoca il pessimismo.
Il sentimento più antipatico, però, è la sensazione che al “comma sei” sia stato fatto pagare un dazio, una sorta di tributo derivante dalla sua affermazione come primo prodotto di gioco pubblico italiano, in grado di demolire il bilancio di più antiche e patinate realtà.
Quando si entra in un cantiere e si ravvisano irregolarità, si mettono i sigilli e si danno termini perentori per la rimozione delle stesse e la messa a norma del luogo di lavoro: con il comma sei si è deciso di bruciare la metà del parco macchine in esercizio escludendo la possibilità di rimedio, in quanto “la logica del gioco” doveva essere fermata e debellata. Sono queste parole (liberamente riassunte dallo scrivente sulla base delle argomentazioni inquisitorie) che hanno fatto riflettere nel 2007 e che nel 2012 tormentano chi il processo lo deve fare, pur sapendo che qualcosa gli sfugge e quel qualcosa minaccia il sacrosanto diritto dei gestori a vedersi riconosciuto un risarcimento.
Comunque vada a finire il processo, il destino di questa vicenda sarà in “stile Lucarelli “. In tribunale la verità giudiziaria, altrove quella vera.

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