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Quale e’ il Preu giusto ?: 12,6%, 11,6%, 10%, prima di dare i numeri facciamo i conti.

22 Aprile 2010

L’Associazione degli operatori per il gioco lecito è sempre in prima linea per denunciare la gravosità del PREU attualmente in vigore, così come per puntualizzare che la persistente concorrenza del gioco irregolare e illegale inasprisce il peso e l’incidenza del tributo sui ricavi di tutte le aziende della filiera. Se da un lato si è scritto che senza una raccolta di gioco a quota 30 miliardi non si pareggia l’inasprimento tributario targato UNIRE e CONI (e ciò è possibile solo eliminando almeno la metà delle irregolarità oggi ancora esistenti), dall’altro lato, è ora di ragionare su come calcolare la correttezza di un tributo. Questo ragionamento si propone di affermare un principio di logica economica in virtù del quale affrontare discussioni e confronti istituzionali, sino ad ora influenzati proprio dall’assenza di “paletti”. Quando si è pensato al sistema del gioco lecito, il PREU ideato nei primissimi lavori Parlamentari era al 15%, poi si è esordito con l’aliquota del 13,5%, poi ci si è orientati al 12%, e infine si è introdotta la c.d. legge a scaglioni di progressivo abbattimento su eccedenze di raccolta. Teoricamente tutto giusto o tutto sbagliato, in quanto la pressione tributaria è stata concepita senza nessun collegamento agli indici di incidenza di tale fattore sull’andamento gestionale delle attività che servono per raccogliere gioco; il vero problema, pertanto, è la persistente difficoltà di far comprendere che le AWP non vengono tele-trasportate dallo spazio e non sono oggetti immanenti, ma costituiscono congegni richiedenti una effettiva prestazione specialistica e continuativa che si associa alla “cura” del punto di raccolta sotto il profilo della manutenzione delle performance di esercizio dei prodotti. Il secondo punto su cui lavorare è la corretta collocazione sistematica ed economica del PREU, il quale è effettivamente un Tributo, ma non sui ricavi delle aziende, bensì sulla “attività”; se il PREU fosse una accise, il problema si risolverebbe aumentando il costo della partita, così come avviene per la benzina; essendo un tributo a monte sulla raccolta, invece, si atteggia – sotto il profilo economico – come un costo della attività: all’aumentare del PREU si restringe il ricavo lordo di gestione, senza possibilità di scaricare a valle (ovvero sul prezzo del servizio), la necessità di perequare le esigenze di ricavo delle aziende, che, ovviamente, mantengono inalterati i costi. Tale fattore è una prerogativa solo del gioco, in quanto in ogni altro servizio, anche quello gestito in regime di concessione (e si pensi all’acqua), si può sempre accedere ad un aumento di tariffa quando il conto economico entra in sofferenza. I calcoli sino ad ora svolti avevano pertanto un vizio di origine. Prospettando il gioco tramite AWP come l’unica attività tassata al 53% (questa è la percentuale di incidenza del 12,6% di PREU, oltre allo 0,8% di AAMS, sul 25% del COIN IN restante dopo le vincite), si è pensato si rendere l’idea del livello di pressione tributaria, evidentemente sproporzionato rispetto agli altri settori.Un diverso approccio, invece, dovrebbe orientarsi nel definire l’esercizio delle AWP come attività all’11,5 % di resa lorda, incentrando “la pietra dello scandolo”, sul fatto che normalmente questo tipo di percentuale è assunta come aliquota presuntiva di ricavo netto sul volume di affari (e quindi imponibile della singola impresa) per quasi tutti i settori. Il comparto AWP si è in gran parte fatto da solo, in quanto l’originaria progettazione del sistema non aveva considerato la grande incidenza della forza lavoro e dell’obsolescenza commerciale dei prodotti sui regimi di esercizio, unitamente ai fattori esterni di perdita (furti, default strutturali dei congegni e delle schede, esazioni di raccolta non sufficientemente tutelate giuridicamente). Ora che il comparto è in procinto di essere “giuridicamente assimilato” pressappoco così com’è, (anche in considerazione del fatto che gli investimenti sostenuti per coprire i disavanzi economici hanno consentito una raccolta di gioco che sfiora il 50% dell’intero volume del settore), è il momento di “fissare i paletti”, iniziando a far capire qual è il bisogno di ricavo e di tutela giuridica per una azienda che – acquista una awp e almeno un cambia-monete per ogni punto di raccolta servito; – ricambia periodicamente i prodotti, aggiornando l’offerta di gioco;- immobilizza capitale per la “prima” dotazione degli hopper di pagamento; – immobilizza capitale per gli oneri finanziari di gestione (fideiussioni, polizze assicurative, commissioni bancarie per la lavorazione della moneta metallica) dimensionati in rapporto al numero di awp e non ri-dimensionabili se non in forza del calo delle stesse; – mette in campo una forza – lavoro caratterizzata da almeno tre mansioni, amministrativo-contabile, tecnico-professionale, commerciale, numericamente dimensionata in rapporto al numero di congegni posti in esercizio (parimenti non ri – dimensionabile se non in contemporanea con la diminuzione delle awp); – assume il ruolo di garante sul territorio per quella raccolta di gioco conservata nel pubblico esercizio sino al buon fine dell’esazione. 
Questo complesso lavoro, solo apparentemente “epico” sotto il profilo della traduzione tecnico-scientifica in un documento coerente con gli standards redazionali imposti dalle prassi dei confronti istituzionali, è in realtà alla portata di AS.TRO, che da oltre due anni aggrega i dati raccolti presso il gestori, attraverso questionari, e.mail, mastrini di bilancio. Un solo fenomeno resta ancora da esplorare, ovvero l’effettivo censimento dei gestori disposti a calarsi in una realtà industriale dove non ci si debba meravigliare che solo una piccola percentuale (a una sola cifra) del volume d’affari costituisca il ricavo aziendale. Non c’è polemica in questo assunto, perché nella dizione “realtà industriale” c’è un significato che sarebbe impegnativo anche per chi la “patente” di grande impresa la possiede da decenni, ma che l’attuale congiuntura negativa ha rivelato non bastare per saper stare sul mercato e affrontare le quotidiane sfide che l’essere industriale impone di accettare. Un tempo gli industriali (buoni e cattivi) facevano “cordata” comune e tenevano “in ostaggio” i registri del personale per chiedere sgravi alla politica: ora, i buoni industriali chiedono solo un sistema – Paese che funzioni e che consenta di mantenere quelle maestranze che sono la risorsa più preziosa. Se il gestore capirà che non può avere esigenze tutelabili diverse da quelle che gli altri imprenditori prospettano, perché è su quelle soltanto che può costruirsi il ricavo aziendale, allora potrà chiamarsi industriale e permettersi di non ascoltare chi “ripudia moralmente” il gioco pubblico e regolato. 

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