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Tessera nominativa del giocatore: i dubbi su una soluzione che non distingue tra “gambler” e “user”

7 Dicembre 2011

Tutti hanno letto, dalle pagine web dell’informazione di settore, la bozza di disciplina che prevede in futuro (prossimo o lontano non è dato saperlo) un nuovo strumento elettronico per l’acquisto (e quindi il pagamento) di tutti i prodotti di gioco pubblico, unitamente all’incasso (e quindi la riscossione) degli eventuali premi. Fine dichiarato di tale evoluzione è l’istituzione di una anagrafe dei giocatori idonea a monitorare pedagogicamente l’utenza al gioco, impedendole (o cercando di impedire) condotte di deviazione patologica, anche attraverso l’indiretto monito derivante dall’intrinseco controllo di congruità fiscale della spesa al gioco (rispetto al reddito dichiarato) che tale strumento elettronico consente di effettuare sull’utente.
Una vera e propria schedatura, il cui tassello giuridico mancante di più solare evidenza (ma di non insuperabile realizzazione) sta nel coinvolgimento del Ministero degli Interni per la regolamentazione dell’anagrafe telematica.
A tutti è sembrato uno strumento invasivo delle libertà civili tutelate anche a livello di trattati comunitari, molti lo giudicano un atto di sollecitazione del comparto a studiare il fenomeno dei rischi collegati al gioco (e del necessario rispetto dovuto al consumatore del prodotto – gioco), per qualche mal – pensante, infine, si tratta solo di un atto di facciata, uno spot propagandistico utile ad allentare la pressione che trasversalmente opprime l’Amministrazione Finanziaria sul fronte dell’attuazione di misure concrete per la messa in sicurezza (socio-sanitaria) della distribuzione del gioco a premio.
Il progetto normativo di cui si abbozza un commento più politico che tecnico, trattandosi di iniziativa che allo stato degli atti viene condotta con totale assenza di consultazione dei distributori di gioco (che a tale strumento dovrebbero poi allinearsi), annovera, però, un altro dato di enorme rilevanza: la carta dei diritti dell’utente, ovvero il fondamentale atto di allineamento del prodotto – gioco lecito alle più basilari regole di tutela del consumo.
AS.TRO invoca tale strumento da 3 anni, ritenendolo il presupposto necessario per l’inversione di tendenza rispetto all’attuale (e persistente) collocazione dell’industria del gioco lecito nell’opinione pubblica, ancora oggi destinataria di un messaggio di eccessiva arroganza da parte della comunicazione di settore (“lasciateci in pace perché paghiamo tante tasse, portiamo tanti denari all’Erario e abbiamo risicati margini di ricavo”). L’odiosità di un messaggio siffatto è evidente, come è evidente il disappunto che “la psiche” prova nei confronti dei benzinai quando si fa il pieno di carburanti, nonostante sia verosimile che a costoro nulla si possa imputare sul costo sempre più alto della nostra “amata” benzina.
A ciò si aggiunge che la patria del gambling ha mutuato da qualche decennio il principio di salvaguardia del gioco dal giocatore problematico (e non il contrario) come regola di salvaguardia dell’industria di settore da “problematiche sociali” e di leale collaborazione con il tessuto economico di operatività (se l’imprenditore fallisce per la malattia del gioco non posso condannarlo per bancarotta e ciò è civicamente inconcepibile per uno Stato laico fondato sull’actio libera in causa).
In tali Paesi l’industria (e non lo Stato) distingue l’”user”, ovvero il non acculturato consumatore che gioca per smettere di lavorare senza sapere alcunché di quello che fa, dal “gambler”, ovvero l’appassionato del gioco / scommessa che sa perfettamente accettare la perdita al gioco non rincorrendo la perdita, perché coltiva un hobby (che in quanto tale è un vizio collocato nell’ambito di un accettabile rapporto con i civici doveri della quotidianità, famiglia, decoro e lavoro compresi).
Il concetto di anagrafe del giocatore, pertanto, non è errato in sé, ma si trasforma in un dossier della SPECTRE se gestito con strumenti para – militari quali fisco e pedagogia “da Stato non-laico”, e va comunque collocato in un contesto di necessaria auto-critica che il settore deve fare laddove non ha mai pensato di allinearsi alla “anglosassone religione del gambling”.
Due idee potenzialmente valide, quindi, rischiano di essere vanificate dallo strumento prescelto per attuarle.
Da un lato interdire l’accesso al gioco all’utenza che (al pari dei minorenni) non è foriera di fruttuosa e costante fidelizzazione al prodotto pubblico; dall’altro lato promuovere la effettiva assunzione di responsabilità da parte di un consumatore “immerso” in un contesto di informazione responsabile non “dribblabile”.
Queste due idee sono valide, ma se le si attua con una carta di credito dall’obbligatorio acquisto, comportante la schedatura fiscale e sociale di tutti coloro che vorrebbero semplicemente non giocare a videopoker illegali e punto com, allora si finisce per curare il malanno col cianuro.

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